Cosa sono io?

Cosa sono io? Per rispondere a questa domanda penso a cosa dovrebbe essere scritto sulla mia lapide una volta che sarò cibo per vermi.
Non voglio che il mio nome sia per sempre legato al luogo nel quale mi è capitato di nascere o vivere. Io non sono un italiano, io non sono un abitante di una città (che è solo un accumulo di cemento e asfalto), io non sono un abitante del pianeta Terra, nessuna di queste identificazioni può riuscire a raccogliere in sé il significato della mia esistenza.
Non voglio che per riassumere la mia identità si usi qualche sostantivo legato alle mie attività e idee (ad esempio “comunista” o “cristiano”). Io non sono uno strumento di un’ideologia, la quale per quanto mi possa convincere e possa essere da me sostenuta, sempre sarà solo un’idea, un abitante dell’iperuranio, uno spirito, dal quale io non voglio essere posseduto. Io sono reale, l’ideologia no.
Io non sono quello che faccio, io non sono il mio lavoro e le mie opere. Mai sommando tutte le manifestazioni del mio io nel mondo potrete ricostruire la complessità della forza che ne fu causa, e comunque mai potrete sperare di conoscere l’inespresso, il noumenico della mia personalità, con il quale io solo giacerò sotto terra.
Non voglio che sotto il mio nome sia scritto “figlio”, “fratello”, “marito” o “membro della
comunità”. Io non esisto per nessun altro che per me stesso, e per quanto possa passare la mia esistenza ad amare con tutto il mio essere sempre vi sarà in me una melodia che solo io possocantare, una storia che solo io posso raccontare.
Non voglio che vi sia scritto egoista, ché io non sono neppure il mio ego. Io in vita non fui la stessa cosa per più di dieci secondi, la mia personalità e i miei sentimenti non finirono mai di mutare di fronte ai miei occhi, ma io ne fui un semplice osservatore e niente più, un estraneo al mio stesso ego e alla mia stessa volubile identità.
Io non sono i miei averi, io non sono neppure questo corpo che mi è stato veicolo per così tanto tempo. Io lo ringrazio per il servizio che mi ha offerto e mi scuso per non averlo sempre onorato come forse meritava, e tuttavia io non sono mai stato esso, e ne è dimostrazione che quando morirò io cesserò di esistere, lui resterà estraneo al mio non essere. Io non sono res extensa.
Io non sono un’anima, io non sono pensiero. Il pensare è un’attività, e nessuno ha mai visto un’attività camminare su due gambe come me. Il mio pensiero, la mia coscienza non è che una della tante manifestazioni di quell’ombra infinita che io sono. Io non sono res cogitans.
Insomma cosa sono io? Io sono niente, io sono il nulla contrapposto ad ogni essere. Io sono una perturbazione attiva nella passiva staticità inconscia dell’universo. Io esisto solo in quanto contestazione della datità del mondo che mi circonda, io esisto solo come negazione di ogni fissità e di ogni gabbia deterministica, sia essa materiale o no. Eccola qui la mia essenza: il mio non essere, la mia indeterminabilità. E solo quando io non mi abbandono alla necessità dell’essere, solo quando io mantengo la mia contingenza dell’essere nulla, che io sono davvero
un essere umano.
Allora quando sarò morto io voglio che questo sia scritto sulla mia lapide sotto il mio nome: “nulla”.

“Ich hab′ mein Sach′ auf Nichts gestellt”
“Io ho fondato la mia causa sul nulla”
-Johann Wolfgang von Goethe

– Riccardo Costantini

L’arte, opera teogonica

l'arte, opera teogonica

Da sempre all’arte sono state attribuite proprietà al confine col mistico, la capacità di innalzare l’animo dell’uomo ai confini dello spirito, nelle regioni dell’assoluto. D’altronde non è un caso che in uno dei miti più importanti della storia della civiltà occidentale (nonché fondante del movimento religioso noto come Orfismo), quello di Orfeo ed Euridice, il protagonista Orfeo ottenga dagli dei il divino privilegio di visitare il mondo dei morti per riportare la propria amata Euridice tra i vivi esclusivamente per la sua abilità nella musica e nella poesia, uniche facoltà capaci di portare l’umano a contatto col divino.
In filosofia il primo a intuire le potenzialità gnoseologiche dell’arte (distinta dalla tecnica) fu Platone, che riconobbe nell’arte icastica (realistica) e non fantastica le potenzialità per educare l’uomo allo studio e alla conoscenza della bellezza fisica (intesa come intuizione nella natura di perfetta armonia e proporzioni). L’arte figurativa e la musica in Platone non avevano però solo un ruolo propedeutico e introduttivo allo studio filosofico delle idee (che era ciò che realmente interessava il filosofo di Atene), in quanto è infatti possibile trovare un’ulteriore rivalutazione dell’opera artistica come attività semidivina che avvicina l’artista (che intuisce la perfezione nascosta nella realtà materiale e la riporta nella sua opera) alla figura del demiurgo (ente metafisico che plasma la materia a imitazione della perfezione manifesta del mondo delle idee).
Un significato simile a quest’ultimo fu attribuito all’attività artistica dal filosofo neoplatonico Marsilio Ficino, che riprendendo dal neoplatonismo di Plotino la concezione di mondo come emanazione dell’Uno, identificò il logos demiurgico che vivifica la materia e la plasma a forma delle idee perfette con l’eros, forza mediatrice tra spirito e materia, il cui strumento prediletto è la bellezza. Il mondo è quindi una grande opera d’arte realizzata da Dio (concetto questo che sarà ripreso da Galileo, secondo cui Dio scrisse la natura in termini matematici), intuirne e imitarne la bellezza è dunque una delle facoltà che più nobilita l’uomo e lo avvicina al suo sommo creatore. In Ficino più che in Platone l’arte assume una propria dignità gnoseologica indipendente dalla conoscenza filosofica, presupposto questo per l’estetismo come culto della bellezza e dell’arte fine a se stessa.
Il rapporto tra estetica e divinità fu poi evidenziato in modo diverso da Immanuel Kant nella Critica del Giudizio, nella quale il filosofo prussiano sostiene che giudizio estetico (che concerne il bello, ed è quindi inerente all’arte) e giudizio teleologico (che riconosce la finalità della natura come espressione della divinità) appartengano entrambi alla categoria dei giudizi riflettenti, ossia quei giudizi privi di valore conoscitivo e morale, che non ineriscono a proprietà appartenenti alla realtà, ma al rapporto tra oggetto conosciuto e soggetto conoscente (bello e finalità non sono quindi intrinseci all’universo, ma sono solo riconoscibili dal soggetto).
Fu però forse Friedrich Schelling colui che più diede importanza all’arte, reputando l’attività di produzione artistica come unica espressione dell’Assoluto, essenza dell’universo, identità tra Natura (l’ispirazione inconscia che soggiunge all’artista) e Spirito (l’opera compiuta consciamente dall’artista). Così l’uomo è l’unico ente capace di portare a compimento la somma sintesi e riportare nell’unità dell’Assoluto i due poli opposti il cui scontro è essenza del divenire universale, e questo anello di congiunzione tra conscio e inconscio, Spirito e Natura, consiste proprio nell’artista, figura profetica tra umano e divino.
Tale capacità unificatrice fu attribuita dal giovane Friedrich Nietzsche al popolo greco presocratico, capace di unire i due poli della realtà, apollineo e dionisiaco, razionale e irrazionale, nell’opera artistica della rappresentazione tragica, in cui la commistione tra l’aulicità del coro e la tragicità della scena recitata permette l’accettazione dell’insopportabile coscienza della natura duale della realtà, propria solo dell’oltreuomo, essere che trascende i limiti e il nichilismo del monismo umano e accetta l’esistenza come continuo scontro di polarità.
L’arte quindi si conferma come strumento che permette all’uomo il transumanare dantesco e il raggiungimento dello stato di divinità, ma questo solo se essa si propone di essere il pugnale volto a squarciare il velo di Maya e rivelare la vera natura delle cose.

– Riccardo Costantini

Sulla purezza

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La purezza è in ultima analisi il valore più sommo e alto della nostra civiltà, l’ideale più ideale, e infatti è anche il traguardo più utopico e impossibile da raggiungere.

Non è difficile scorgere nella nostra storia il continuo desiderio di un ritorno al candore primordiale, che si configura per fare alcuni esempi nei miti dell’Età dell’Oro della cultura classica o del Giardino dell’Eden di Ebraismo e Cristianesimo, ma anche nello “stato di natura” del filosofo Rousseau come nella figura del fanciullino nella poetica di Pascoli, in cui l’uomo adulto aveva il compito di dare voce attraverso la poesia al proprio fanciullino interiore, ovvero alle proprie facoltà intuitive e analogiche, tipiche di un’età innocente e pura come la fanciullezza, esaltata dal poeta romagnolo come età di
primato gnoseologico e morale.
E d’altronde l’intera storia della nostra civiltà è accompagnata da un’ansia di rigenerazione: da sempre si è cercata una via di salvezza dalla dannazione del mondo terreno e corrotto per un ritorno alla purezza, affidando ad un singolo il compito di salvare l’umanità intera (si pensi a Gesù Cristo come al puer della IV ecloga delle Bucoliche virgiliane, o più recentemente al mito new age dei bambini indaco), o aspettando invano l’avvento di una nuova era (nelle eresie del tipo di quella di Gioacchino da Fiore come nei più recenti culti dell’Età dell’Acquario).

Una volta riconosciuta l’importanza attribuita alla purezza occorre chiedersi: come mai essa è tanto stimata da noi occidentali? Perché si arriva a tal punto da credere che tutta la sapienza posseduta dal più sapiente dei sapienti non valga l’abilità di poter osservare il mondo con gli occhi di un bambino (convinzione questa condivisa sia dalla maggioranza dei moderni che da Nietzsche, quando afferma che il fanciullo con il suo riso spensierato sia ciò che più si avvicina all’Übermensch e alla sua accettazione della realtà)?
Ritengo che per ricercare le cause del primato assiologico della purezza occorra considerarla come il contrario di qualcos’altro, e mi sembra altresì evidente che la purezza sia il contrario della conoscenza. In effetti abbiamo detto che la purezza è una qualità dell’infanzia, e più un bambino è piccolo e più è puro, poiché ignora più cose del mondo che lo circonda. “Omnia munda mundis” (Tutto è puro ai puri) sosteneva San Paolo, e infatti è ritenuto puro di mente chi spesso ignora le malignità e malizie del mondo materiale. Insomma più si progredisce nella conoscenza del mondo, più la purezza e il candore passati si allontanano: quando la conoscenza delle cose aumenta, la
purezza diminuisce.
Il valore attribuito alla purezza risulta quindi inevitabilmente essere sintomo del ripudio verso la conoscenza delle cose, e cioè del rifiuto del mondo che è condiviso, sia apertamente che nascostamente, dalla maggior parte degli uomini. La ricerca della purezza e della salvazione non è altro che una ricerca di una via di fuga dal mondo maligno e indifferente nei nostri confronti, verso un aldilà al quale riteniamo di appartenere.
A pensarci bene questa conclusione ci è anche suggerita dal mito di Adamo ed Eva: i due antenati hanno perso la loro purezza e si sono vergognati di essere nudi quando hanno assaggiato il frutto dell’Albero della Conoscenza. E allora si può anche suggerire che a noi uomini, loro progenie costretta ad assaggiare il frutto proibito, esso sia rimasto ancora un boccone indigesto, e stia ancora nel nostro stomaco, a marcire causandoci nausea e disgusto verso la realtà che ci sta davanti e tutt’intorno.

Individuate le cause del nostro amore per la purezza si apre ora una nuova questione: dobbiamo noi ora continuare a perseverare nel vano tentativo di tornare a un passato di incoscienza e purezza, o dobbiamo cercare di digerire il frutto dell’Eden, di raggiungere non la fanciullezza passata, ma la maturità futura? E se scegliamo di percorrere il secondo sentiero, finora poco battuto, in che modo possiamo raggiungere la nostra meta?

– Riccardo Costantini

Humanitas, ossia come essere umani.

scipioni 2

 

In epoca antica, secoli prima che la morale fosse una mera deduzione dai principi religiosi, la civiltà romana si cimentò nell’impresa di forgiare un sistema etico che potesse essere riconosciuto universalmente come giusto e applicabile da ogni essere umano. La ricerca dei principi fondamentali della morale attinse sia dalla filosofia greca che dai costumi e dalle tradizioni mitiche della Roma delle origini, e diede origine al concetto di humanitas (letteralmente ciò che è umano), ossia ciò che rende l’uomo davvero uomo e lo distingue dalla bestia.

L‘humanitas come insieme di virtù e precetti non è affatto un’idea ben definita o strutturata, e anzi fu oggetto di dibattito presso i maggiori intellettuali latini, da Cicerone a Seneca, da Catone a Orazio. Tuttavia studiarne l’evoluzione nel pensiero di tali grandi figure non solo è utile per comprendere l’influenza che i suddetti hanno avuto nei 2000 anni a seguire, ma è anche estremamente interessante per una mente del XXI secolo, essendo paradossalmente un concetto così antico un’alternativa molto nuova e attuale ai conformismi dei giorni nostri, dove sempre più essere umani è un atto rivoluzionario.

Il Circolo degli Scipioni
Possiamo ricondurre una prima elaborazione del concetto di humanitas al Circolo degli Scipioni, un gruppo di intellettuali di età repubblicana che si riunivano intorno alla nobile famiglia degli Scipioni. Tali intellettuali, che comprendevano filosofi stoici come Panezio, storici come Polibio, e letterati  come Terenzio, erano accomunati da un forte interesse nella ricca e raffinata cultura greca, che proprio grazie a loro stava cominciando a conquistare Roma, nonostante il disaccordo con i valori del mos maiorum del quale parleremo in seguito.
Fu proprio il commediografo Terenzio (190-159 a.C.) che nella sua opera Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso) ci presenta la frase che forse più di ogni altra riassume l’essenza dell’humanitas:

Homo sum, nihil humani a me alienum puto

“Sono un uomo, non reputo niente che sia umano come estraneo a me”

Si riconosce quindi nell’humanitas l’ideale di derivazione greca della filantropia (amore per l’uomo e quindi per il prossimo), che si configura nelle virtù stoiche di empatia, compassione e amicizia.

L’opposizione dei conservatori
All’ellenizzazione dei costumi si opposero fortemente i Romani più conservatori, il cui campione fu certamente Catone il Censore (234-149 a.C.). Egli vedeva la cultura greca come una minaccia all’integrità morale della sua gente, e oppose una netta resistenza all’infiltrazione dei costumi greci a Roma, proponendo come alternativa un sentito ritorno ai valori del mos maiorum (i costumi degli antenati), che costituivano un sistema morale fondato sulla virtù. In particolare le virtù dell’autentico uomo romano erano: la pietas (fedeltà e rispetto per gli dei e il loro volere), la dignitas (simile alla moderna idea di dignità e pudore), la gravitas (solennità), l’integritas (integrità morale) e la frugalitas (ripudio per i lussi e tutto ciò che non è necessario).

Cicerone e il sincretismo
Successivamente gli studiosi Romani accettarono il valore degli insegnamenti Greci, senza però mai abbandonare l’ideale arcaico dell’aderenza al mos maiorum, ma anzi tentando di enfatizzare i punti di incontro tra i due sistemi morali, senza porli in contrasto. Il protagonista di tale progetto sincretico fu senza dubbio Cicerone (106-43 a.C.), il quale aggiunse all’insieme delle virtù latine antiche la virtù greca di paideia, traducibile come amore e studio della la cultura. Tale attività era infatti ritenuta necessaria dall’Arpinate per lo sviluppo e la crescita dell’individuo, con il fine del miglioramento sia dell’attività letteraria e intellettuale (otium) che dell’attività politica (negotium), entrambe ritenute egualmente importanti e anzi complementari.
In particolare Aulo Gellio (125-180 d.C.) definirà la paideia come istruzione ed educazione nelle buone discipline (“eruditio et institutio in bonas artes”) e dichiarerà:

quas qui percupiunt adpetuntque, hi sunt vei maxime humanissimi

“coloro che sono attratti [dalle discipline letterarie], questi sono massimamente umanissimi”

Conclusione
La conclusione è lasciata al lettore. Possiamo davvero noi oggi definirci umani? Senza scadere nello stereotipo e nella demagogia, viviamo noi in una società composta da umani o da contenitori artificiali di informazioni, programmati dall’ideologia per compiere il nostro dovere di funzionare in un meccanismo del quale spesso ignoriamo l’esistenza? Per conoscere la risposta i criteri ci sono forniti dai grandi giganti sulle cui spalle noi poggiamo, ma ora occorre guardarci attorno, e soprattutto guardarci dentro, e se la risposta dovesse essere negativa, ci conviene al più presto diventare il cambiamento che vorremmo vedere nel mondo, diventare umani.

– Riccardo Costantini.