È con immenso piacere che vi presentiamo la nuovissima rubrica “Frammenti” tenuta da Capraeeeelefante. Si tratta di recensioni di libri un po’ particolari: viene presentato il libro scelto attraverso dei frammenti del libro stesso connessi a un’immagine. Verrà pubblicata una recensione al mese. Per il mese di Gennaio, Capraeeeelefante vi propongono Le onde di Virginia Woolf.

– Vedo un cerchio – disse Bernard, – che pende sulla mia testa. Oscilla e pende in un anello di luce.
– Vedo una macchia gialla – disse Susan, – che si allarga finché incontra una striscia viola.
– Sento un suono – disse Rhoda, – cip, cip, cip, cip; più forte, più piano.
– Vedo un globo sospeso – disse Neville, – che goccia sui fianchi enormi della collina.
– Vedo una nappa rosso cremisi – disse Jinny, – intrecciata di fili d’oro.
– Sento qualcosa che scalpita – disse Louis. – Una bestia enorme è tenuta per il piede in catena. Scalpita, scalpita, scalpita.
– Guardate la ragnatela all’angolo del balcone – disse Bernard. – Contiene delle perle bianche, delle gocce di luce bianca.
– Le foglie si raccolgono intorno alla finestra come orecchie appuntite – disse Susan.
– Un’ombra cade sul sentiero – disse Louis, – sembra un gomito piegato.
– Isole di luce nuotano nell’erba – disse Rhoda. – Piovono dagli alberi.

Una notte, una stella corre veloce sopra le nubi, e le dissi: “Consumami”. Fu in piena estate, dopo la festa in giardino e l’umiliazione di quella festa. Il vento e la tempesta hanno dato il colore a luglio. Ma cadaverica, orrenda ci fu nel mezzo la pozzanghera grigia, giù in cortile, e io con una lettera in mano, che portavo un messaggio. Arrivai alla pozzanghera. Non riuscii ad attraversarla. Persi l’identità. Non siamo nulla, mi dissi, e crollai. Volai via come una piuma, vorticai dentro a un tunnel. Più con grande cautela spinsi avanti un piede, mi appoggiai con una mano al muro di mattoni rossi. Ritornai in me con grande fatica, rientrai nel mio corpo, superai la pozza grigia, cadaverica. Ecco la vita a cui mi consegno.

Lascia allora che io ti crei. (Tu hai fatto altrettanto per me.) In questa bella, chiara giornata di ottobre che sta ormai finendo, sei disteso su questa sponda assolata e guardi le barche che scivolano via tra i rami pettinati del salice. E vorresti essere un poeta, ti piacerebbe essere un amante. Ma sono proprio la splendida chiarezza della tua intelligenza, l’onestà spietata del tuo intelletto a bloccarti. Non indugi in mistificazioni. Non ti nascondi dietro a nuvole rosate, o gialle. Ho ragione? Ho interpretato correttamente il gesto impercettibile della tua mano sinistra? Se è così, dammi le tue poesie; consegnami i fogli che hai scritto la notte scorsa in un tale fervore ispirato che ora un po’ ti vergogni. Perché non ti fidi dell’ispirazione, né della tua, né della mia. Insieme, attraverso il ponte, passando sotto gli olmi, torniamo nella mia stanza, dove, chiusi da pareti, con le tende di sargia rossa tirate, ci difenderemo dalle voci che vi distraggono, dai profumi e dagli aromi del tiglio, dalle altre vite.

– È odio, è amore – disse Susan. – È un torrente infuriato nero-carbone che dà il capogiro solo a guardarlo. Ci teniamo su una sporgenza, ma se guardiamo giù, ci vengono le vertigini.
– È amore – disse Jinny, – è odio, come quello che prova per me Susan, perché una volta ho baciato Louis in giardino, perché, per come mi presento, appena arrivo lei subito pensa: “Le mie mani sono rosse”, e le nasconde. Ma l’odio tra di noi quasi non so distingue dall’amore.

– Ho vinto – disse Jinny. – Ora tocca a te. Io mi devo buttare a terra, ansimo. A forza di correre non ho più fiato, tale è l’ansia del trionfo. A forza di correre, per il trionfo, mi si è svuotato. Il sangue dev’essere rosso acceso, ribolle, pulsa. Le piante dei piedi mi prudono, come se dentro vi si aprissero e chiudessero anelli di ferro. Vedo distintamente ogni filo d’erba. Ma dietro la fronte, dentro gli occhi, qualcosa batte così forte, che tutto fuori danza – la rete, l’erba; le facce svolazzano come farfalle, gli alberi sembra che saltino su e giù. Non c’è niente di fermo, niente di stabile, in questo universo. Tutto freme, tutto vibra, tutto è velocità e trionfo. Ma poi, quando distesa sulla terra dura, vi guardo giocare, comincio a provare il desiderio di essere prescelta, convocata, chiamata da qualcuno che viene a cercarmi, perché è attratto da me, non può starmi lontano, e mi si avvicina mentre sto seduta sulla mia bella sedia dorata, con la gonna che mi si forma intorno come un fiore. E ritirandoci in un’alcova, oppure soli sul balcone, parliamo.

– In questo silenzio – disse Susan, – nessuna foglia, pare, cadrà mai, nessun uccello canterà.
– Come se fosse successo un miracolo – disse Jinny, – e la vita si fosse fermata qui e ora.
– E non avessimo – disse Rhoda – più tempo da vivere.
– Ma ascoltate – disse Louis – il mondo, come muove attraverso gli abissi dello spazio infinito. Rimbomba. La striscia illuminata dalla sstoria è trascorsa e così i Re e le Regine. Noi siamo morti, la nostra civiltà, il Nilo, la vita tutta. Le nostre gocce, separate, si sono dissolte. Siamo tutti estinti, dispersi nell’abisso del tempo, nelle tenebre.
– Il silenzio cade, il silenzio cade – disse Bernard. – Ma ora ascoltate. Tic, tic, tuh, tuh: il mondo ci chiama di nuovo. Per un attimo, mentre passavamo al di là della vita, ho sentito i venti ululanti dell’oscurità. Poi tic, tic, tic (l’orologio), poi tuh, tuh (le macchine). Siamo atterrati. Siamo a riva. Siamo seduti tutti e sei intorno a un tavolo. È la memoria del mio naso che mi richiama a me stesso. Mi alzo: “Combatti!” grido; “Combatti!”, ricordandomi della forma del mio naso, e sbatto con fare pugnace il cucchiaio sulla tavola.”

– Libera da scontri e collisioni, navigo sola bordeggiando bianche scogliere. Ma ecco che affondo, sprofondo. Quello è lo spigolo della credenza, questo è lo specchio della camera dei bambini. Ma s’allargano, s’allungano. Affondo nelle piume nere del sonno; le sue ali pesanti mi chiudono gli occhi. Traversando l’oscurità vedo le aiuole allungate, e la signora Constable che sbuca dal giardino erboso per dirmi che mia zia è venuta a prendermi. Oh, come vorrei svegliarmi dal sogno! Ecco, lì c’è il cassettone. Potessi strapparmi da queste acque! Invece si accumulano, mi si rovesciano addosso, mi sballottolano, io precipito, e mi ritrovo distesa tra queste luci lunghe, queste onde lunghe, questi sentieri senza fine, tra gente che spinge, che spinge.
– Capraeeeeelefante