– Allora Agata, cosa fai per le vacanze di Natale?
Una domanda apparentemente semplice. La risposta potrebbe essere “starò a Milano” oppure “andrò a sciare” (cosa alquanto improbabile dato che non ho mai messo un paio di sci ai piedi) o ancora…
– Vado a raccogliere arance in Sicilia!
Lo dico con un sorriso, pronta ad intercettare lo sguardo confuso del mio interlocutore, pronta a spiegargli che sì, andrò davvero nelle campagne siciliane, in un baglio che un tempo apparteneva al mio bis-bis-nonno, a raccogliere arance in compagnia di una ventina di amici di tutte le età. La scuola è ricominciata da qualche giorno, è arrivato il 2018, ma io sento ancora attorno a me tutto il calore che questa esperienza mi lascia, ogni anno.

Il volo è stato turbolento. I pensieri, più di tutto il resto, erano turbolenti. Il 29 dicembre, alle undici di sera, siamo atterrati all’aeroporto di Palermo in dieci. Tre famiglie, ancora per poco. Non ricordo molto di quella sera, se non il furgone che sfrecciava nella notte, tutti i paesaggi che conosco come il palmo delle mie mani sciolti in una massa nera, e la sensazione di qualcosa che si agitava nella gola, mentre le palpebre mi si appesantivano.
C’è voluto un giorno perché mi abituassi nuovamente alla mia Sicilia. La Rocca, così si chiama il baglio dove ho passato tutte le mie estati fin da quando ero piccola, è per me un luogo che ha qualcosa di sacro. Lontano dal resto del mondo, le uniche cose che contano qui sono gli amici, il mare, il cibo, la sensazione di abbondanza e di pace, la sensazione di trovarmi nel preciso punto della terra dove affondano le mie radici, la sorgente della mia energia. Passare dalla grigia Milano alla Rocca non è una cosa da niente. Ci vuole pazienza per immergersi nel ritmo placido del cortile. Ci vuole pazienza per adattare le mie parole a questo spazio calmo, dove posso prendermi il mio tempo, dove nessuno mi corre dietro e nessuno limita i miei orizzonti. La grande città mi insegna a raggomitolarmi e a richiudermi su me stessa. Qui mi schiudo nuovamente, anche se ci vuole un po’. Bisogna lasciare che la Rocca operi la sua magia.

Ho mangiato la prima arancia. Seduta sull’erba, su collinette morbide di trifoglio, in fondo al campo, l’ho sbucciata con le dita e minuscole gocce di succo sono sprizzate in una nuvola dalla scorza, brillando nel sole per un attimo prima di dissolversi, sprigionando l’aroma inconfondibile e pungente di agrume. Ogni spicchio, uno alla volta. Mangiare come una specie di rituale.

Il 31 mi sono svegliata presto. Qui tutto è diverso. Vestirsi significa infilare strati e strati di maglie, magliette e golfoni, tre paia di calze, i jeans che si possono rovinare nel campo, e per finire gli stivali di gomma rossi, che in dieci giorni ho tolto solo per andare a dormire.
Fare colazione significa salire nella grande sala dove ora ci sono tre tavoli uniti a formare un unica tavolata. Ci sono i biscotti con i semi di sesamo, quelli all’anice o al pistacchio, la brocca di spremuta, una caffettiera gorgogliante sempre sul fornello. Ogni giorno faccio colazione con persone diverse. Dipende tutto da quanto decido di restare sotto il piumone caldo. Finita la colazione c’è tempo appena per lavare i denti, e la raccolta è già cominciata.
– Da dove si inizia oggi?
– Se non sbaglio dovremmo finire il secondo filare…
– Però c’è un gruppetto che è andato a raccogliere i limoni nell’altro campo!
E’ durante l’inverno che la Sicilia diventa più rigogliosa, senza il caldo torrido che secca il suolo. A gennaio il campo è verde e rigoglioso, l’erba è tappezzata di fiori gialli di acetosella, che mi piace staccare, per poi succhiare la linfa asprigna e rinfrescante dal gambo.
Attraversiamo il campo con una cesoia e un paio di guanti, portando due o tre cassette vuote, e iniziamo a raccogliere. Si gira attorno all’albero, prendendo le arance più basse e a portata di mano, poi ci si addentra fra i rami fitti in una specie di abbraccio contorto, per arrivare fino ad afferrare l’arancia più alta. Le chiacchiere passano e scorrono di albero in albero, le cassette si riempiono, il sole si alza nel cielo.

I fiori violetti del rosmarino sono finiti nella pasta insieme alla ricotta e alla scorza di limone. Abbiamo pranzato in terrazzo. Venti bicchieri, non uno uguale all’altro, che brillavano al sole. Qui le persone si imbelliscono incredibilmente. L’età, la stanchezza, le rughe non contano più. Ogni volto nell’aria dorata del dopopranzo splende glorioso. Ogni sorriso ne accende venti altri. Gli amori tornano in vita, il cibo ritrova il suo sapore, gli occhi il luccichio.

Siamo andati in spiaggia, e la sabbia profumava di estate anche se fa freddo. Ci sono sempre le grandi onde che avanzano e gorgogliano, e il profilo dei monti che conosco così bene. Poi i ciottoli tondi come la luna quasi piena, alla quale mancava uno spicchio minuscolo.
Dopo la cena di capodanno siamo scesi nel campo buio. Abbiamo raccolto rami secchi e un paio di cassette rotte e abbiamo acceso un falò. Una vampata di caldo, e le fiamme improvvisamente sembravano scorrere dentro di me, un misto di brividi per il freddo della notte, per l’oscurità attorno, e di fremito gioioso per il nostro cerchio di volti ipnotizzati dalle scintille, pronti ad accogliere il nuovo anno nel più vivo dei modi, con il fuoco negli occhi. Abbiamo ballato in cerchio, abbiamo urlato alla notte e poi cantato in un coro improvvisato, abbiamo attizzato il fuoco e abbiamo lasciato che i brutti ricordi del 2017, che avevamo scritto su un foglietto di carta, bruciassero fino a diventare cenere. Li abbiamo lanciati tutti insieme nelle fiamme poco prima della mezzanotte, gridando ancora più forte per la gioia.
Alle tre di notte finalmente nel letto, ho fatto fatica ad addormentarmi, perché la testa non voleva smettere di parlottare, viaggiare e volteggiare, ovunque ma non sul cuscino.

La Rocca salda. La sala è tiepida, la sera tardi, mentre aspettiamo la cena con il Fuffo che suona il pianoforte, gli altri che cantano, leggono, chiamano al telefono amici e parenti o si scaldano attorno alla stufetta. Il luogo più caldo della casa è la cucina, con quattro fornelli accesi e l’ennesima torta salata deliziosa di Titta che cuoce nel forno. Nel pentolone più grande sobbolle placida la marmellata all’arancia. Sarebbe bello se tutto questo non finisse mai.
– Agata