Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.
Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se ardono appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
Chiedo scusa al vecchio amore se do la precedenza al nuovo.
Perdonatemi, guerre lontane, se porto fiori a casa.
Perdonatemi, ferite aperte, se mi pungo un dito.
Chiedo scusa a chi grida dagli abissi per il disco col minuetto.
Chiedo scusa alla gente nelle stazioni se dormo alle cinque del mattino.
Perdonami, speranza braccata, se a volte rido.
Perdonatemi, deserti, se non corro con un cucchiaio d’acqua.
E tu, falcone, da anni lo stesso, nella stessa gabbia,
immobile con lo sguardo fisso sempre nello stesso punto,
assolvimi, anche se tu fossi un uccello impagliato.
Chiedo scusa all’albero abbattuto per le quattro gambe del tavolo.
Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.
Verità, non prestarmi troppa attenzione.
Serietà, sii magnanima con me.
Sopporta, mistero dell’esistenza, se strappo fili dal tuo strascico.
Non accusarmi, anima, se ti possiedo di rado.
Chiedo scusa al tutto se non posso essere ovunque.
Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna.
So che finché vivo niente mi giustifica,
perché io stessa mi sono d’ostacolo.
Non avermene, lingua, se prendo in prestito parole patetiche,
e poi fatico per farle sembrare leggere.
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‘Un uomo’, Oriana Fallaci.
“La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere.”
“L’unico modo per non soffrire è non amare,
che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare
sei destinato a soccombere.”
“Για σένα.” (‘Per te.’), questa, la dedica di uno dei romanzi più profondi ed intimi della scrittrice, giornalista e attivista italiana Oriana Fallaci. “Un uomo” è stato pubblicato nel 1979, attraverso di esso Oriana narra la storia di Alexandros (Alekos) Panagulis, che amò e che fu suo compagno nella vita.
“… La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria.”
Una lunga, nostalgica lettera, promessa mantenuta, una biografia, una memoria all’uomo amato, gli ultimi tre anni della vita dell’eroe che non voleva essere chiamato tale, un simbolo della libertà e della Resistenza per la Grecia, una voce, un gesto, l’unico che fece della propria vita un’intera ribellione, un sacrificio al fine di ristabilire la tanto bramata giustizia, l’eguaglianza e la parità nel suo paese.
«Voi siete i rappresentanti della tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche che il canto del cigno di ogni vero combattente è il rantolo che egli emette colpito dal plotone di esecuzione di una tirannia.»
Un Uomo, oltraggiato, tradito, torturato con sevizie più raccapriccianti, umiliato, ucciso psicologicamente e fisicamente, soffocato, schiacciato, da tutti, a partire dai tiranni, dalla dittatura, dai ministri, dai soldati, maggiori, medici, psicologi, conoscenti, amici, famiglia, popolo. Un Uomo solo, immerso nella sua più profonda solitudine, nella sua disperazione più cupa, più folle, un Uomo che si aggira come un cane per i vicoli bui, affamato, ferito, abbandonato da tutti, che ovunque vada trova insulti, porte chiuse o bastonate, così Alekos combatteva, imperterrito, per raggiungere il suo unico scopo, ciò per cui era nato, ciò a cui il destino, fin dal principio, lo aveva legato con catene di ferro, per non lasciarlo più scappare, se non attraverso la morte.
“un uomo che viveva e moriva da uomo, senza piegarsi, senza spaventarsi, senza rassegnarsi, predicando l’unico bene possibile, l’unico bene che conta: la libertà”.
Le pagine di Oriana Fallaci sono pagine madide di dolore, di una rabbia soffocata, di violenza…no! violenza ce n’è stata fin troppa. Una scrittura intensa, appassionata, viva, ci rivela tutto l’amore, la cieca fiducia, l’ammirazione per quest’uomo. Il racconto delle terribili vicende, a partire dall’attentato fallito al dittatore Geōrgios Papadopoulos, passando per le feroci torture e interrogatori, arrivando alla prigione, ai tallonamenti e alla caccia in libertà, si alterna a momenti che rivelano tutto il genio e l’astuzia di Alekos, che più volte porta all’esasperazione il direttore della cella di Boiati (Zakarakis), pur di ottenere di volta in volta piccoli benefici, che fossero il gabinetto o carta e penna, su cui scrivere gli struggenti versi che affollavano la sua mente.
“….il vero eroe non si arrende mai,… a distinguerlo dagli altri non è il gran gesto iniziale o la fierezza con cui affronta le torture e la morte, ma la costanza con cui si ripete, la pazienza con cui subisce e reagisce, l’orgoglio con cui nasconde le sue sofferenze e gliele ributta in faccia a chi gliele impone. Non rassegarsi è il suo segreto, non considerarsi vittima, non mostrare agli altri tristezza o disperazione. E all’occorrenza, ricorrere all’arma dell’ironia e della beffa: ovvie alleate di un uomo in catene”.
Una storia carica di tensione, angoscia, paura e dolore, colma di sicurezza, arroganza, decisione e perseveranza, ma soprattutto di Amore e di Fedeltà,
a mio parere uno dei pochi libri che racconta la forma d’Amore più pura e incondizionata che esista. Il miglior libro che abbia mai letto.
“Negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue poesie. E forse è vero che quasi mai l’amore ha per oggetto un corpo, spesso si sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci investe, o per ciò che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostre convinzioni, alla nostra morale; però il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello non ti seduce, qualcos’altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere mi piaceva molto. […] Ma allora perché avevo avuto quell’impulso di correrti dietro, di abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola e ricacciare indietro le lacrime?”
Egon Schiele, “L’abbraccio”.
Tra le pieghe di un lenzuolo, due corpi si stringono l’uno all’altro. I lunghi capelli di lei sfiorano il pavimento, il volto di lui ne sente l’odore. Si stanno amando.
“…les enfants qui s’aiment
Ne sont là pour personne
Et c’est seulement leur ombre
Qui tremble dans la nuit
Excitant la rage des passants
Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie”
Jaques Prévert.
Schiele lo dipinge nel 1917, mentre fuori infuria la Grande Guerra. I due amanti sono in un loro mondo, onirico, eterno ed unico, non comprensibile ad altri, distaccato all’orrore che avviene fuori : bombe, soldati, massacri, vetri rotti, urla, sofferenza, dolore. Nulla di questo sfiora i due, con il loro abbraccio che si trasforma in una morsa, in un disperato attaccamento alla vita. Lei si aggrappa saldamente a lui, come se fosse un porto sicuro.
Le pennellate nervose e vischiose, uniche ed ineguagliabili, caratteristiche di Schiele, descrivono le due figure, la cui pelle appare già livida e terrea come quella dei cadaveri.
L’ultimo disperato atto d’amore si è consumato. I due amanti sembrano destinati al distacco inesorabile, ma le loro anime resteranno per sempre legate in quel disperato e straziante abbraccio.
– Anastasia
‘Freud o l’interpretazione dei sogni’ al Piccolo Teatro Strehler
dal 23 gennaio al 11 marzo 2018
«Ogni epoca ha un paio di libri, non di più, che la riassumono completamente. Al punto tale da esserne una sorta di catalogo. Il Novecento è L’Interpretazione dei sogni di Freud. Noi siamo figli di quel libro. Ecco la necessità e la bellezza di dedicare una produzione di questa importanza a un’opera forse mai portata in scena».
Così l’autore, Stefano Massini, spiega le motivazioni di un impegno artistico che l’ha portato ad elaborare per le scene il lavoro principale di Freud interpolandolo con altri suoi scritti.
“Freud o l’interpretazione dei sogni” è il lavoro di un Uomo, che decide di guardarsi dentro, di capirsi, di conoscersi e di superare quella impercettibile, ma al tempo stesso definita, barriera che esiste tra il mondo reale e quello dei sogni; due creati a prima vista non interscambiabili, uno estremamente concreto, tangibile e reale, l’altro terribilmente astratto e folle, ma tutt’e due sono, come si scopre, ineluttabili. Il sogno è la creazione alienata della nostra stessa mente oppure una rievocazione e un richiamo al nostro passato, ai nostri errori, alle più grandi paure, nonché desideri?
“Perché il sogno, come dice Freud, è fatto con materiali di scarto della nostra psiche, non con i materiali essenziali, non con quelli prioritari della nostra interiorità.”
Da dove provengono essi e con che fini ci si presentano davanti agli occhi della mente? E’ possibile spiegare qualche cosa di talmente incomprensibile, senza risultare pazzo agli altri o almeno a se stesso?
Lo spettacolo è reso particolarmente gradevole grazie alla struttura del testo che “è molto simile, nella sua rapidità, alla drammaturgia del montaggio cinematografico: come in un film di Hitchcock il lettore e lo spettatore desiderano arrivare al punto finale, alla scoperta, alla soluzione.”
Una soglia tra l’interiorità di tutti noi e ciò che ci si presenta davanti agli occhi, un abisso tra l’immaginario e l’autentico, tra il mistero e l’evidenza, tra il sonno e la veglia è già sul palcoscenico.
– Anastasia
Una vita all’istante.
Una vita all’istante.
Spettacolo senza prove.
Corpo senza modifiche.
Testa senza riflessione.
Non conosco la parte che recito.
So solo che è la mia, non mutabile.
Il soggetto della pièce
va indovinato direttamente in scena.
Mal preparata all’onore di vivere,
reggo a fatica il ritmo imposto dell’azione.
Improvviso, benché detesti improvvisare.
Inciampo a ogni passo nella mia ignoranza.
Il mio modo di fare sa di provinciale.
I miei istinti hanno del dilettante.
L’agitazione, che mi scusa, tanto più mi umilia.
Sento come crudeli le attenuanti.
Parole e impulsi non revocabili,
stelle non calcolate,
il carattere come un capotto abbandonato in corsa –
ecco gli esiti penosi di tale fulmineità.
Poter provare prima, almeno un mercoledì,
o replicare ancora una volta, almeno un giovedì!
Ma qui già sopraggiunge il venerdì
con un copione che non conosco.
Mi chiedo se sia giusto
(con voce rauca,
perché neanche l’ho potuta schiarire tra le quinte).
Illusorio pensare che sia solo un esame superficiale,
fatto in un locale provvisorio. No.
Sto sulla scena e vedo quant’è solida.
Mi colpisce la precisione di ogni attrezzo.
Il girevole è già in funzione da tempo.
Anche le nebulose più lontane sono state accese.
Oh, non ho dubbi che questa sia la prima.
E qualunque cosa io faccia,
si muterà per sempre in ciò che ho fatto.
– Wislawa Szymborska
L’Acrobata all’Elfo Puccini
“Non sento niente. E’ come se fossi
stato colpito da un plotone di esecuzione.
E’ vivo. Il mostro è vivo.
E con lui vive la vergogna. Vive la bugia.
Vive il terrore.
Vive l’adeguarsi all’ingiustizia.”
Chi è l’acrobata?
“E’ colui che volteggia pronto a lanciarsi da uno spazio temporale all’altro, a tagliare i ponti con tutto e tutti, a partire, con un bagaglio leggero, verso una terra promessa in eterno”. L’acrobata è un fantasma che ritrova corpo e voce per raccontare la sua versione dei fatti, il suo eroico e tragico salto mortale. E’ il figlio, che cerca di rompere il muro di silenzio per sapere il filo del legame col padre. E’ una madre, bambina in fuga dall’Italia fascista.
“Apparire e scomparire, come fa un mago… o un acrobata”.
Il testo della scrittrice e regista fiorentina, Laura Forti, messo in scena con grande successo da Elio De Capitani, condirettore artistico dell’Elfo, è nato come omaggio ad una madre, protagonista di questo spettacolo, che dovette andare in esilio a Santiago a causa delle leggi razziali e dopo il golpe di Pinochet rifugiarsi in Svezia. Ad una madre che ha perso il proprio figlio in nome di un ideale, come molte altre; ad una madre, che cercando di trasmettere l’amore per la libertà e la giustizia, vede la vita del figlio trasformarsi in un enorme ed eterno animale bramoso di vendetta, cieco dall’odio e dall’ira, desideroso della tanto attesa justicia, che nel Cile della seconda metà del ‘900 non è più né un ordine virtuoso né un diritto, soltanto un lontano e confuso ricordo. Il golpe dell’11 settembre 1973, strutturato con un assalto d’aviazione e di terra a La Moneda, cancella la presidenza di Allende, politico amato e scelto dal popolo, instaurando una dittatura militare guidata da Pinochet. Un regime di terrore e di menzogna che genera spietate stragi, deportazioni di massa, assassini e torture. Famiglie intere sono costrette a fuggire, a fingere, cadendo in povertà e ricominciando la vita da una pagina bianca, un foglio candido, ma totalmente logoro, ripiegato e tagliato, senza il diritto di chiederne un altro, né di sceglierselo da soli.
“La vita divenne un lavoro” per coloro che riuscirono a fuggire dall’ammasso desaparecida, i cosiddetti “scomparsi”, cancellati dalla faccia della Terra da un giorno all’altro, mai esistiti; la vita divenne una tortura, una sorta di fatale gioco a “chi resiste più a lungo”, prima di piantare tutto, di tradire i propri sogni e le proprie idee, la famiglia, prima di essere schiacciato dai ricordi, dal passato e dal dolore.
“Non pensare, non pensare! Mi faccia fare qualsiasi cosa, basta che mi impedisca di pensare!”
L’acrobata non racconta solo la memoria di un paese, esso racconta la memoria familiare ed emotiva, narra una storia vera, autentica, ricostruita con dolorose immagini e frammenti dell’orrenda tragedia del Cile, del golpe e della resistenza.
Una storia per parlare a tutti noi oggi, per ricordare e per impedire.
– Anastasia Gerasimova