Un autunno in musica

sulla metro rimbomba il cuore rimbombano le rotaie rimbomba il sangue e questa canzone. come il personaggio di un libro o di un film, che tutti gli incidenti di percorso e tutti gli ombrelli gocciolanti e tutte le trecce disordinate e tutti i passi camminati hanno tutti un senso. un puzzle che si ricompone solo alle otto di sera, sulla metro, il peso del giorno stanco nei piedi e nelle spalle. guarda il tuo vicino di fronte negli occhi per qualche secondo in più, lui non lo sa che è stato catturato nella rete, e ora fa parte del tuo film. se non c’è niente a salvarti e i pezzi non si decidono a coincidere per formare la prossima costellazione, almeno c’è questa canzone per camminare a tempo e immaginare che l’asfalto risponda e ti senta, e almeno lui sappia.
malinconia chiusa in casa, imbottigliata. finestre oblò su un mare di nebbia. le mie ossa hanno avuto il tempo di assorbirla, la nebbia, e adesso la annuso dalla finestra. malinconia straziata. dove vai? dove vai a finire? è quella malinconia dove non è poi così male nuotare. sul tetto, vado a fare una telefonata, osservare i passanti e tenere nelle mani un languore, una smania che cresce ogni giorno, come se la innaffiassi. è vero, la innaffio di sogni. mi cresce nelle mani e la guardo come da dietro un vetro, da dietro le finestre, da dietro l’oblò. il filo della vita che si stava srotolando, e ora qualcuno ha premuto pausa, e puoi solo ascoltare questa canzone e aspettare.
sentimento acquatico e camminare piano. so tutte le parole a memoria, una per una. un cuore che batte forte sotto la felpa e io lo sento, contro il mio orecchio. mi ricordo il prato bello di parco sempione, mi ricordo la ghiaietta, mi ricordo i cani e la fine dell’estate. mi ricordo quando sono risorta. questa canzone mi prende per mano e mi porta a passeggio sull’autunno. avevo gli occhi chiusi per immaginare, gli occhi aperti per osservare, e poi in un grumo sulle scale di casa, non voglio ritornare col muso, sbollisco qui fuori. questa canzone contiene un profumo. questa canzone è delicata e fluttua tra le nuvole, un po’ paradiso e un po’ banale autunno milanese col muschio sui tronchi e il frescolino pungente la sera.
mi lavo i denti davanti allo specchio. il pianoforte ti porta su pian piano, sorridi. lo stesso loop, all’infinito. sottolinea i libri, rileggi le frasi dieci volte se necessario. accelera, anche se non te ne accorgi. rallentano i giorni, anche se sono tutti uguali. nel vaso le fragoline hanno ricominciato a fiorire, ma non eravamo a novembre? è la gioia che vive sottotraccia e parla di speranza, di continuità, di fili riavvolti e di ritrovare la strada. che puoi mettere passo dopo passo e ricordare ogni momento della tua vita come se fosse ora, passato e futuro fusi in un punto solo, sorridi allo specchio, ti sciacqui la bocca, rimetti a posto lo spazzolino e spegni la luce, buonanotte.
fedeltà al corpo. intessuto di nervi, muscoli, vene, ossicini. questo album è un capolavoro, e ogni canzone è dedicata a una parte del corpo. musica ipnotica, testi contorti e densi, troppe parole che vuoi dire, troppe parole scritte sulle note del telefono, ecco perché sta esplodendo. troppi pianti che potresti lasciar andare come sospiri di sollievo; ne libero approssimativamente la metà, gli altri si sedimentano da qualche parte sotto il diaframma, sotto lo stomaco, e guidano i miei movimenti, e guidano le mie danze. queste canzoni portano l’attenzione al corpo, al sangue, e l’attenzione, in tempi come questi, è già segno di abbastanza fedeltà.
mai sentito una canzone così terribilmente bella. è intensa e ti sostiene come grandi ali. cambia ogni volta, ogni volta che la ascolti. con questa canzone sto in cucina da sofia, ci raccontiamo le cose e prepariamo le crespelle e moriamo dalle risate, ho un sorriso così gigante che tutto sulla faccia non ci sta. è drammatica come le foglie che ho visto fluttuare giù dagli alberi, leggere come sipari, chiusi su una panchina. immagino di camminare su una spiaggia col mare tormentato e il cuore pesante e presente, con i piedi vivi, le mani fredde, questa canzone in testa, e so che me la porterò addosso per sempre.
boccata d’aria fresca e di gioia spontanea nel mezzo di un lockdown. ti ritrovi a ballare in giro per casa, e nessuno capisce. cosa vuol dire, “amore avraaaai la stessa miaaaaa felicitaaaaà”, non si capisce, ma risuona come un mantra. passi di samba. la ziza, come la zisa che sta a palermo, probabilmente non c’entra niente. sotto un tetto di stelle, siamo nel deserto eppure balliamo. è nel deserto che ti ricordi il valore delle cose. le cose piccole che diventano grandi, le cose grandi che diventano piccole. ho fatto la torta pere e cioccolato. se ascolti la ziza mentre cucini i tuoi familiari ti faranno il doppio dei complimenti. abbraccia loro. coccola il tuo gatto, che tanto non capisce nulla, e augura a tutti che abbiano la tua stessa felicità senza senso.

– agata

Vorrei sapere

Vorrei sapere

Cos’è piangere per qualcuno. Cos’è piangere davanti a qualcuno. Cos’è cancellare uno strato di distanza alla volta e restare vicini con la pelle che si fonde.

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Perché associo un momento cristallizzato ad ogni canzone. Cos’è il fuoco impazzito che scorre nelle vene e il nettare che riempie il petto di follia e l’oro sulle spalle la luce nei capelli i lampi nello sguardo il ritmo di una risata di una camminata.

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Cos’è dormire vicini. Cosa sono le lenzuola tiepide ma vuote di cui parlano le canzoni e vorrei sapere se poi si intrecciano anche i sogni la notte. Cos’è essere fieri di qualcuno fino ad essere in lacrime. Cos’è rimanere privi di difese. Cos’è il bene cos’è il male castelli di attimi di fiocchi di neve di vento. Cos’è mangiare insieme. Cos’è l’amore. Perché dobbiamo stare tutti in equilibrio.

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Cos’è la rabbia e le mani che tremano e perché dovrebbero tremare. Cos’è la delusione. Cos’è non sapere niente ma sguazzarci dentro. Perché amo tutti e nessuno. Cos’è voler entrare nella testa degli altri. Cos’è intrecciare parole su parole e creare nel cervello un superavvolgimento di fili che forse sono spezzati ma non lo saprai mai.

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Cosa sono tutti gli schermi che mettiamo fra noi e il mondo. Perché è in qualche modo confortante avere gli occhi annebbiati di lacrime. Cos’è pensare la stessa cosa nello stesso istante. Cos’è amare incondizionatamente. Perché si tirano i sassi nel mare. Cosa vuol dire conoscersi. Com’è che amicizie diverse possono intersecarsi fra di loro. Quanti capelli ho. Quanti anni ancora. Come sarà e perché e dove finirò – questo non lo voglio sapere. Era una domanda retorica.

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Foto: Tommaso Ricci
Testo: Agata

Giugno 2018 // un diario visuale

Le giornate di giugno sono uno squarcio nell’estate. Mi ero dimenticata della sensazione di libertà assoluta che si prova in una macchina stracarica che corre verso il Sud, mi ero dimenticata com’è emozionante tornare a casa, in una casa che è tua e di tante altre persone, in mezzo alla campagna siciliana. E poi c’è il sole ovunque sulla pelle, la frutta fresca appena raccolta dall’albero, le zucchine dell’orto che non finiscono più, le giornate di mare calmo. Questa è una raccolta di impressioni, attimi catturati quasi senza l’intenzione di creare questo video. Il viaggio verso Napoli, poi il traghetto fino al porto di Palermo, e la vita che trascorre fra amici che vanno e amici che vengono.

“La velocità, per esempio, de’ cavalli o veduta, o sperimentata, cioè quando essi vi trasportano (…) è piacevolissima per sé sola, cioè per la vivacità, l’energia, la forza, la vita di tal sensazione. Essa desta realmente una quasi idea dell’infinito, sublima l’anima, la fortifica…” – G. Leopardi, Zibaldone

– Agata

Flow // mixtape

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” – No, – disse fra sé la signora Ramsay, mettendo insieme alcune figurine ritagliate da Giacomo, un frigorifero, una falciatrice, un signore in frac, – i bambini non dimenticano. – Appunto perciò bisognava misurare in loro presenza atti e parole, ed era un sollievo mandarli a letto. Allora non occorreva più ch’ella pensasse a qualcun altro. Allora poteva essere se medesima e appartenere a se medesima. Da qualche tempo ella provava spesso il bisogno di riflettere un po’; forse non proprio di riflettere; ma di tacere, di star sola. Allora l’esistenza e l’azione, espansive, luccicanti, vocali, evaporavano in lei; e il senso di sé, in modo quasi augusto, si riduceva a un segreto cuneo d’ombra, a qualcosa d’occulto per gli altri. Pur continuando a scalzettare, impettita sulla sedia, ella si sentiva così trasformata; e il suo io, scisso da ogni legame, era libero per le più strane avventure. Quando la sua rivalità sprofondava per un istante, il campo delle esperienze le pareva senza confine.” – Virginia Woolf, Gita al faro

– Agata

Tredici Aprile.

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La collina è come un masso muscoso appoggiato sul mare. Annebbiato dal fumo del fuoco sulle sterpaglie. Opaco verde-grigio. Anche i vestiti affumicati sono verdi, bianchi, blu, acquamarino. Le scie enormi e sfumate degli aeroplani  traversano da parte a parte il cielo. Ci sono gli schizzi e gli orli di schiuma sul mare, contro la roccia. C’è l’ultimo scoglio, come il muso di una tartaruga addormentata. La musica delle onde, un fragore insopportabile, una melodia conciliante. L’orizzonte tirato a filo, potrebbe spezzarsi se si tende troppo. Ma ora non c’è pericolo, perché l’aria è umida e confonde i contorni.
C’è definizione nelle odine più minuscole un attimo prima che si fondano insieme, nelle impronte lucide lasciate dalla marea, nelle foglie allungate e appuntite della yucca, immobili nella sera, e nelle ali di piccoli uccelli neri che battono ritmicamente il cielo. C’è caos nei turbini di moschini impazziti, nel fumo bianco, nell’azzurro indistinto dell’aria, nei muri rosa stinto di questo balconcino.
Un gabbiano fa la spola dalla spiaggia al tetto della casa, un altro plana silenzioso sul golfo, lo abbraccia nel suo volo bianco, e finalmente, quando il vento non lo sorregge più, batte frenetico le ali per portarsi più in alto.
Speriamo solo che il profumo del mare resti attaccato alla pelle, a tenermi compagnia in attesa dell’estate.

– Agata

Feelings come, feelings go

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A volte abbiamo la sensazione che le giornate passino una dopo l’altra senza lasciarci niente. Scivolano fra le nostre dita, e ci ritroviamo in un turbine confuso di emozioni senza riuscire a fare ordine nei pensieri. Altre volte tratteniamo e schiacciamo le emozioni, decidiamo di non sentire, di non ascoltare ciò che ci vogliono dire. O ancora, le giudichiamo e ci rifiutiamo di affrontarle.

E se invece di trattenere le emozioni le lasciassimo uscire e respirare? Non esiste una “buona” o una “cattiva” emozione. Spegniamo per un attimo quella parte di noi che vuole a tutti i costi dare un giudizio, distinguere, dominare. Osserviamo con attenzione, e quando l’emozione si delinea meglio davanti a noi diamole il permesso di prendere il sopravvento. Ora è una parte di noi, ma domani non lo sarà più. Non dobbiamo condannarci per averla provata, né aver paura di non poterla sentire mai più.

Ma possiamo documentare come ci sentiamo di giorno in giorno.

Quanto dolore nel cuore di Picasso passò attraverso le sua immaginazione, e da lì alle setole del pennello, assunse sfumature azzurre fino a costruire la sua stessa immagine… gli autoritratti del dolore del cosiddetto periodo blu.

Quindi perché non fare lo stesso? Prendiamoci un momento di pausa, a tu per tu con il nostro sentimento, diamogli parola, immagine, colore; ascoltiamolo e facciamolo fiorire per quello che è e solamente per quello che è. Niente giudizio o aspettative. Nessuna esaltazione o umiliazione. Questi sono momenti per noi stessi e per nostro assoluto beneficio, lasciamoci alle spalle tutto quello che è superfluo.

Poi esprimiamoci. Molti sono gli strumenti che possiamo utilizzare, poco importa. Nemmeno la complessità nelle nostre abilità deve essere da ostacolo. Non si tratta di impressionare qualcuno, nemmeno noi stessi. Senza pensarci troppo, abbassiamo lo sguardo e guardiamoci dentro, affrontiamo il nostro sentimento e diamogli sfogo: prendiamo una penna, velocemente, cogliendo l’attimo. Scaraventiamoci su un pezzo di carta, componiamo tratti incisivi, graffianti, impressi violentemente nella carta. Il mio dolore. O decisi ma non violenti, rilassati, ma non lenti. La mia felicità. Ogni emozione e ogni sua sfaccettatura merita di essere ritratta.

Non solo il disegno può essere un farmaco per ciò che sentiamo dentro di noi. Scrivere, ballare, prendere a pugni un sacco in palestra, parlare, viaggiare, comporre musica…

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E alla fine poco importa se la nostra emozione su carta, o le parole che abbiamo composto non saranno simili al nudo blu di Picasso o a un verso doloroso di Zbigniew Herbert, perché è opera nostra e delle nostre emozioni. Siamo noi. Su carta.

– Rachele + Agata + Carollo

Digressione // mixtape

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E poi
viene un’ora
col suo sonno.
Cola giù
il viola e le palpebre
hanno una legge di peso
l’ordine superiore
di serrare ogni luce.
Allora – dopo la battaglia
col suo sgambettare
riponiamo i capelli sul cuscino
le mani lateralmente
e un precipizio del corpo
nel poligono del sonno
con sue fiammelle di respiro
e un sostare un sostare
per ristorare tutto
di questo fasciame
fino a che sulle punte
tutto il fiato va e viene
lentamente
in uno stare soli dei dormienti.

Oh! solitudine di chi dorme!
Ti cerco dalle sponde alte
degli insonni.

da “Bestie di Gioia”, Mariangela Gualtieri

– Agata

A proposito di “Call me by your name”…

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Attenzione!! Questo articolo contiene alcuni (parecchi) spoiler quindi… se non hai ancora visto Call me by your name cosa stai aspettando? Corri al cinema!! (E fatti un piacere: guardalo in lingua originale con i sottotitoli!! Fidati, ci ringrazierai).
Se invece hai visto il film e condividi l’entusiasmo della redazione tuffati immediatamente nella sezione dei commenti o sul nostro instagram (@lastronautablog) e dicci cosa ne pensi!
Un’ultima annotazione… questa più che una recensione è una raccolta delle nostre impressioni sparse sul film nella forma di delirio (certe cose vanno specificate).

Questo film mi ha distrutta e riportata in vita allo stesso tempo.
E’ restato impresso in me con una forza e una vividità incredibili. L’ho guardato due volte ma potrei rivederlo una terza, e una quarta, e una quinta senza mai stancarmi.
La fotografia è qualcosa di spettacolare. Immersiva, pensierosa, quieta. Si sofferma su dettagli di luce, su profumi e atmosfere, che magicamente riesce a trasmettere attraverso le immagini. Ci sono molte inquadrature statiche che riprendono i costumi appesi ad asciugare, le bici appoggiate al muro, la pioggia sui gradini, assaggi della natura e della calura nelle quali la villa è immersa. Ognuno di questi momenti è assolutamente essenziale. La prospettiva delle inquadrature è sempre tale da rendere i personaggi e gli spazi quasi tangibili, e questo rende il film un’esperienza totale nella quale si è rapiti completamente; pare davvero di essere spettatori non da una sala di cinema ma da un’angolino della villa, dal bordo della strada sulla quale Elio e Oliver sfrecciano in bicicletta, dal prato sotto gli alberi del giardino.

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L’amore fra Elio e Oliver si dipana lentamente, sequenza per sequenza, battuta per battuta. Sono i dettagli più piccoli a narrare il groviglio di emozioni che nasce in Elio, o i moti quasi invisibili dell’anima di Oliver.
Il film non vuole mai affrettare gli eventi. Non salta pezzi, non spinge avanti ma si prende il suo tempo. Ogni sguardo, parola e occhiata fra Elio e Oliver vengono riprese con attenzione e con delicatezza, senza forzature, senza sbrodolamenti sdolcinati, ma in modo assolutamente realistico e naturale.
Scorre e tu spettatore scorri con esso. Sono due ore lunghe e intense, ricche, dense. Sono poche le scene che avrei eliminato senza pensarci due volte.
I dialoghi sono un miscuglio sapiente di detto e non detto. Riprendono essenzialmente la chimica e il legame profondo che si sviluppa fra Elio e Oliver. Il modo in cui si innamorano, il modo in cui comunicano una volta che il loro amore è presente, trascinante e indiscutibile. Sempre con leggerezza. Non c’è bisogno di fare chissà quale dichiarazione. Si guardano e semplicemente sanno. L’attrazione è fluida e presente, permea ogni scena. Il loro amore è un garbuglio giocoso, una via di mezzo fra un abbraccio e una lotta.

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Ispira una voluttà profonda. Il piacere di vivere. Le nuotate al fiume, i libri, la musica, le biciclettate. Sembra di sentire sulla propria pelle ogni momento di quell’estate, e ci riporta alle estati e agli amori che ognuno di noi ha (o non ha) vissuto. La nostalgia stampa un’impronta ben precisa sin dalla primissima scena. Ma la sensazione che lascia il film è dolce, è quella di un eterno presente senza tensioni, anche se carico di confusione e novità. Questo è uno dei motivi per cui Call me by your name mi è restato da qualche parte fra il petto e la pancia, è sempre lì, uno struggimento, un piccolo sorriso interiore, un calore inestinguibile.
Le ultime scene, dopo la partenza di Oliver, sono un crescendo di emozioni che culmina con il finale, di una bellezza commovente. Il discorso del signor Perlman racchiude tutto ciò che un padre dovrebbe trasmettere ai suoi figli sull’amore e ciò che ho percepito come lo spirito del film: quello che conta è non uccidere il dolore, non uccidere il piacere, vivere e sentire pienamente la gioia come la tristezza.

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La purezza del personaggio di Elio, la sua personalità, vengono esaltate in ogni scena grazie alle superbe doti di attore di Timothée Chalamet. In un incredibile miscuglio di confidenza e impaccio derivante dalla giovane età, Elio non si maschera (quasi) mai. Quando agisce d’impulso sembra stupire persino se stesso. Non sa mai cosa fa, oppure è perfettamente cosciente e manovra ogni situazione? Timothée impersona il suo ruolo esponendosi e rendendosi completamente vulnerabile, lasciando ampio spazio alla complessa sfera emozionale del personaggio, sempre con incredibile naturalezza. L’ultimissima scena può essere considerata come il suo piccolo capolavoro: un primo piano sul volto di Elio che piange per quattro lunghi minuti. Il film si chiude al picco della commozione, nuda e cruda, che lega il protagonista allo spettatore.
D’altro canto in Oliver, interpretato altrettanto magistralmente da Armie Hammer, si riesce ad intravedere la continua lotta interiore di uno spirito acuto e vigile, che conosce se stesso come conosce gli altri, che lavora sulla sua interiorità e sulle sue debolezze, che è rispettoso fino alla fine, stabile e presente per sorreggere Elio nei momenti in cui si sente perso, sempre completamente immerso in ciò che sta facendo. Anche Armie mette la sua emozionalità al servizio di Oliver, calandosi perfettamente in lui e arricchendolo con la sua interpretazione.
E vogliamo parlare della colonna sonora? Mistery of love e Visions of Gideon di Sufjan Stevens sono due piccole perle che incapsulano perfettamente l’atmosfera sognante del film. La commozione sale ogni volta che parte una di queste due canzoni. E poi Une barque sur l’ocean di Ravel che accompagna con delicatezza l’estate senza tempo nella quale Elio e Oliver vivono il loro amore.

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– Agata

Galassia // mixtape

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Le canzoni si susseguono una dietro l’altra come gocce d’acqua. Come quando guardi il cielo la notte e vedi una stella, e poi un’altra, e un’altra ancora. Galassia è per quelle sere. Il momento giusto per riflettere, leggere, non pensare a niente o pensare a tutto in una volta sola. Profumo di lavanda, un pizzico di malinconia, melodie liquide, tè con miele. Guance rigate, onde placide, un sentiero che percorri seguendo l’istinto, inventando ogni curva ogni bivio ma andando avanti nonostante tutto. Boccioli e succo di limone. Voci diverse sulle quali adagiarsi come su una nuvola. Non cercare di dissipare la nebbia. Trasformati in nebbia, solo per un’ora. Poi ti risveglierai, e ti accorgerai che era solo il vapore della tua tazza di tè.

– Agata

Profumo d’arancia e scorza di limone

– Allora Agata, cosa fai per le vacanze di Natale?
Una domanda apparentemente semplice. La risposta potrebbe essere “starò a Milano” oppure “andrò a sciare” (cosa alquanto improbabile dato che non ho mai messo un paio di sci ai piedi) o ancora…
– Vado a raccogliere arance in Sicilia!
Lo dico con un sorriso, pronta ad intercettare lo sguardo confuso del mio interlocutore, pronta a spiegargli che sì, andrò davvero nelle campagne siciliane, in un baglio che un tempo apparteneva al mio bis-bis-nonno, a raccogliere arance in compagnia di una ventina di amici di tutte le età. La scuola è ricominciata da qualche giorno, è arrivato il 2018, ma io sento ancora attorno a me tutto il calore che questa esperienza mi lascia, ogni anno.

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Il volo è stato turbolento. I pensieri, più di tutto il resto, erano turbolenti. Il 29 dicembre, alle undici di sera, siamo atterrati all’aeroporto di Palermo in dieci. Tre famiglie, ancora per poco. Non ricordo molto di quella sera, se non il furgone che sfrecciava nella notte, tutti i paesaggi che conosco come il palmo delle mie mani sciolti in una massa nera, e la sensazione di qualcosa che si agitava nella gola, mentre le palpebre mi si appesantivano.

C’è voluto un giorno perché mi abituassi nuovamente alla mia Sicilia. La Rocca, così si chiama il baglio dove ho passato tutte le mie estati fin da quando ero piccola, è per me un luogo che ha qualcosa di sacro. Lontano dal resto del mondo, le uniche cose che contano qui sono gli amici, il mare, il cibo, la sensazione di abbondanza e di pace, la sensazione di trovarmi nel preciso punto della terra dove affondano le mie radici, la sorgente della mia energia. Passare dalla grigia Milano alla Rocca non è una cosa da niente. Ci vuole pazienza per immergersi nel ritmo placido del cortile. Ci vuole pazienza per adattare le mie parole a questo spazio calmo, dove posso prendermi il mio tempo, dove nessuno mi corre dietro e nessuno limita i miei orizzonti. La grande città mi insegna a raggomitolarmi e a richiudermi su me stessa. Qui mi schiudo nuovamente, anche se ci vuole un po’. Bisogna lasciare che la Rocca operi la sua magia.

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Ho mangiato la prima arancia. Seduta sull’erba, su collinette morbide di trifoglio, in fondo al campo, l’ho sbucciata con le dita e minuscole gocce di succo sono sprizzate in una nuvola dalla scorza, brillando nel sole per un attimo prima di dissolversi, sprigionando l’aroma inconfondibile e pungente di agrume. Ogni spicchio, uno alla volta. Mangiare come una specie di rituale.

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Il 31 mi sono svegliata presto. Qui tutto è diverso. Vestirsi significa infilare strati e strati di maglie, magliette e golfoni, tre paia di calze, i jeans che si possono rovinare nel campo, e per finire gli stivali di gomma rossi, che in dieci giorni ho tolto solo per andare a dormire.
Fare colazione significa salire nella grande sala dove ora ci sono tre tavoli uniti a formare un unica tavolata. Ci sono i biscotti con i semi di sesamo, quelli all’anice o al pistacchio, la brocca di spremuta, una caffettiera gorgogliante sempre sul fornello. Ogni giorno faccio colazione con persone diverse. Dipende tutto da quanto decido di restare sotto il piumone caldo. Finita la colazione c’è tempo appena per lavare i denti, e la raccolta è già cominciata.
– Da dove si inizia oggi?
– Se non sbaglio dovremmo finire il secondo filare…
– Però c’è un gruppetto che è andato a raccogliere i limoni nell’altro campo!
E’ durante l’inverno che la Sicilia diventa più rigogliosa, senza il caldo torrido che secca il suolo. A gennaio il campo è verde e rigoglioso, l’erba è tappezzata di fiori gialli di acetosella, che mi piace staccare, per poi succhiare la linfa asprigna e rinfrescante dal gambo.
Attraversiamo il campo con una cesoia e un paio di guanti, portando due o tre cassette vuote, e iniziamo a raccogliere. Si gira attorno all’albero, prendendo le arance più basse e a portata di mano, poi ci si addentra fra i rami fitti in una specie di abbraccio contorto, per arrivare fino ad afferrare l’arancia più alta. Le chiacchiere passano e scorrono di albero in albero, le cassette si riempiono, il sole si alza nel cielo.

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I fiori violetti del rosmarino sono finiti nella pasta insieme alla ricotta e alla scorza di limone. Abbiamo pranzato in terrazzo. Venti bicchieri, non uno uguale all’altro, che brillavano al sole. Qui le persone si imbelliscono incredibilmente. L’età, la stanchezza, le rughe non contano più. Ogni volto nell’aria dorata del dopopranzo splende glorioso. Ogni sorriso ne accende venti altri. Gli amori tornano in vita, il cibo ritrova il suo sapore, gli occhi il luccichio.

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Siamo andati in spiaggia, e la sabbia profumava di estate anche se fa freddo. Ci sono sempre le grandi onde che avanzano e gorgogliano, e il profilo dei monti che conosco così bene. Poi i ciottoli tondi come la luna quasi piena, alla quale mancava uno spicchio minuscolo.

Dopo la cena di capodanno siamo scesi nel campo buio. Abbiamo raccolto rami secchi e un paio di cassette rotte e abbiamo acceso un falò. Una vampata di caldo, e le fiamme improvvisamente sembravano scorrere dentro di me, un misto di brividi per il freddo della notte, per l’oscurità attorno, e di fremito gioioso per il nostro cerchio di volti ipnotizzati dalle scintille, pronti ad accogliere il nuovo anno nel più vivo dei modi, con il fuoco negli occhi. Abbiamo ballato in cerchio, abbiamo urlato alla notte e poi cantato in un coro improvvisato, abbiamo attizzato il fuoco e abbiamo lasciato che i brutti ricordi del 2017, che avevamo scritto su un foglietto di carta, bruciassero fino a diventare cenere. Li abbiamo lanciati tutti insieme nelle fiamme poco prima della mezzanotte, gridando ancora più forte per la gioia.
Alle tre di notte finalmente nel letto, ho fatto fatica ad addormentarmi, perché la testa non voleva smettere di parlottare, viaggiare e volteggiare, ovunque ma non sul cuscino.

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La Rocca salda. La sala è tiepida, la sera tardi, mentre aspettiamo la cena con il Fuffo che suona il pianoforte, gli altri che cantano, leggono, chiamano al telefono amici e parenti o si scaldano attorno alla stufetta. Il luogo più caldo della casa è la cucina, con quattro fornelli accesi e l’ennesima torta salata deliziosa di Titta che cuoce nel forno. Nel pentolone più grande sobbolle placida la marmellata all’arancia. Sarebbe bello se tutto questo non finisse mai.

– Agata